La legge prevede che per trasferire la proprietà di un immobile sia necessario un atto pubblico, ossia un contratto stipulato dinanzi a notaio.
Una semplice scrittura privata, vale a dire un documento redatto e firmato da una o più parti, senza la presenza di un notaio o di altro pubblico ufficiale, non rappresenta uno strumento idoneo a trasferire la proprietà di un immobile.
Diverso è provare la proprietà di un immobile.
Come verrebbe disciplinato il caso, ad esempio, di coppie sposate o conviventi che volessero far figurare la proprietà di un immobile in capo a un solo coniuge o compagno, sebbene il bene fosse nella sostanza di proprietà dell’altro o fosse in comunione?
Che strumenti avrebbe il reale proprietario per provare la titolarietà dell’immobile?
Sarebbe sufficiente una scrittura privata in cui la parte proprietaria dal punto di vista formale dichiarasse di detenere in tutto o in parte l’immobile per conto della parte proprietaria dal punto di vista sostanziale?
E, in caso positivo, cosa succederebbe se la parte proprietaria dell’immobile si rifiutasse di ritrasferire il bene al reale proprietario o contestasse la suddetta scrittura privata?
Infine, quale categoria di creditori può attaccare il bene? La categoria dei creditori di chi detiene il bene o dei creditori del proprietario sostanziale?
Procedendo con ordine, va subito detto che per la Cassazione una scrittura privata è idonea, da sola, a dimostrare la proprietà di un immobile, ove attesti l’esistenza di un patto fiduciario tra le parti.
In tal senso si è pronunciata la sentenza in oggetto, ponendosi nel solco di quanto stabilito dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 6 marzo 2020 n. 6459.
Con tale ultima sentenza, la Cassazione a Sezioni Unite ha inquadrato innanzitutto il fenomeno fiduciario come “una operazione negoziale che consente ad una parte (il fiduciante) di far amministrare o gestire per finalità particolari un bene da un’altra parte (il fiduciario), trasferendo direttamente al fiduciario la proprietà del bene o fornendogli i mezzi per l’acquisto in nome proprio da un terzo, con il vincolo che il fiduciario rispetti un complesso di obblighi volti a soddisfare le esigenze del fiduciante e ritrasferisca il bene al fiduciante o a un terzo da lui designato. Attraverso il negozio fiduciario la proprietà del bene viene trasferita da un soggetto a un altro con l’intesa che il secondo, dopo essersene servito per un determinato scopo, lo ritrasferisca al fiduciante, oppure il bene viene acquistato dal fiduciario con denaro fornito dal fiduciante, al quale, secondo l’accordo, il bene stesso dovrà essere, in un tempo successivo, ritrasferito”.
Ma cosa succederebbe se il fiduciario si rifiutasse di adempiere all’obbligo di ritrasferire l’immobile al fiduciante?
La risposta viene fornita sempre dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 6459/2020, attraverso la ricostruzione giuridica del caso di specie.
La Cassazione esclude innanzitutto che il patto fiduciario sia assimilabile a un contratto preliminare, che necessiterebbe per legge della forma scritta.
Il negozio fiduciario è invece assimilabile, per i giudici di legittimità, al mandato senza rappresentanza.
Sia nel mandato senza rappresentanza che nel negozio fiduciario si è in presenza di una interposizione reale di persona: in particolare – con specifico riguardo all’ipotesi oggetto delle presenti note – dell’interposizione della persona che abbia acquistato un bene utilizzando la provvista del terzo e per seguire le istruzioni da lui impartite.
Tale fattispecie può essere qualificata, secondo la Cassazione, come mandato o come negozio fiduciario, e le norme applicabili sono le stesse.
Posto che la giurisprudenza esclude la necessità della forma scritta quale prova del mandato ad acquistare un immobile – a proprio nome ma su mandato di un terzo – ne consegue che anche per la validità dal pactum fiduciae – che preveda l’obbligo di ritrasferire al fiduciante il bene immobile intestato al fiduciario, per averlo questi acquistato da un terzo – non sarà richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario finalizzato a regolare un assetto di interessi, con effetti esclusivamente obbligatori.
Qualora il pactum fiduciae non rivestisse la forma scritta, e fosse quindi verbale, lo stesso sarà comunque valido, ma occorrerà fornire la prova della sua esistenza, prova che può essere anche rappresentata da una dichiarazione unilaterale del fiduciario con cui assume l’obbligo di ritrasferire al fiduciante quanto acquistato, non essendo necessaria una scrittura bilaterale tra fiduciante e fiduciario.
Inoltre, sempre secondo l’orientamento della Cassazione, la dichiarazione unilaterale scritta del fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile e recante la promessa del ritrasferimento del bene al fiduciante, rappresenta una promessa di pagamento (art. 1988 c.c.), con conseguente esonero del fiduciante dell’onere di provare il rapporto fiduciario, che si presume fino a prova contraria.
Quindi, all’atto pratico, qualora l’intestatario formale dell’immobile, oltre a rifiutarsi di restituire il bene, contestasse la scrittura privata da lui sottoscritta con cui riconosce l’altrui proprietà, dovrebbe fornire la prova contraria, ossia provare in giudizio l’ipotetica falsità della scrittura da lui stesso redatta e firmata.
Il che sgombra il campo da pericoli in capo al fiduciante.
Da ultimo, deve ricordarsi che la proprietà dell’immobile è formalmente in capo al fiduciario, salvo l’obbligo di ritrasferirlo al fiduciante.
Gli accordi derivanti dal pactum fiduciae sono inopponibili ai terzi ai sensi tra l’altro dell’articolo 1372 c.c., in base al quale il contratto ha forza di legge tra le parti e non può di regola avere valore nei confronti dei terzi.
Conseguentemente, è bene che il fiduciario non abbia debiti esigibili, perché i terzi che avessero per esempio iscritto ipoteca giudiziale sul bene, prevarranno sul fiduciante che in data posteriore abbia trascritto domanda di ritrasferimento del bene immobile (Cass., sentenza del 24 settembre – 25 ottobre, n. 24166 del 2013).
Ciò premesso, l’intestazione fiduciaria, con le cautele del caso, appare indubbiamente utile per regolare assetti patrimoniali di coppia o per proteggere con anticipo beni di proprietà del fiduciante dal rischio che, intraprendendo questi un’attività di impresa, possano un giorno essere aggrediti dai suoi creditori.
Di seguito si riporta il testo integrale della sentenza oggetto di commento.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
Dott. AMATO Cristina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16264/2018 R.G. proposto da:
AA., rappresentata e difesa dall’Avv. Nicola Grippa ed elettivamente domiciliata in Roma, Via Giorgio Vasari n. 4, presso lo studio dell’Avv. Simona Censi;
– ricorrente –
contro
B.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Pomarico, con domicilio eletto nel Suo studio, in Oria (BR), Via Latiano n. 242/a;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce n. 222/2018 del 16 gennaio 2018, pubblicata il 21 febbraio 2018 e notificata ai difensori costituiti in data 03 aprile 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 Dicembre 2022 dal Consigliere Milena Falaschi,
Svolgimento del processo – motivi della decisione
Ritenuto che:
– A.A., con atto notificato il 5 giugno 2006, evocava, dinanzi al Tribunale di Brindisi, B.B. al fine di sentire accertare l’autenticità della scrittura privata del 12.11.2003 intervenuta tra gli stessi e la sua natura di atto di disposizione ad effetti reali, con conseguente dichiarazione della A.A. quale comproprietaria dell’appartamento sito in (Omissis), oltre all’accertamento della titolarità in capo alla stessa di un diritto di credito nei confronti del B.B. pari ad Euro 43.846,22.
Premetteva l’attrice, all’epoca legata sentimentalmente al B.B., di avere sottoscritto contratto preliminare per l’acquisto di una abitazione, senonché al momento della successiva conclusione dell’atto pubblico il B.B. aveva insinuato nella A.A. il dubbio che l’acquisto dell’immobile avrebbe potuto determinare la perdita dell’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge, per cui si convinceva a far intestare il bene in via esclusiva allo stesso.
Nel 2003 decidevano di regolamentare i loro rapporti patrimoniali con scrittura privata per il caso in cui fosse venuto meno il vincolo affettivo ed il rapporto di convivenza, regolando anche la proprietà di detto bene.
Nel dicembre 2005 il B.B. abbandonava l’abitazione comune, e le intimava di rilasciare l’immobile, perché detenuto sine titulo, rivendicandone la piena ed esclusiva proprietà, da cui sorgeva l’esigenza di tutelare la propria posizione di comproprietaria;
– istauratosi il contraddittorio, nella resistenza del B.B. il quale spiegava anche domanda riconvenzionale per ottenere la condanna dell’attrice al pagamento della somma di Euro 10.000,00 a titolo di locazione dell’immobile de quo, di cui disconosceva la comproprietà, il Tribunale adito, in esito all’istruttoria, con sentenza n. 2104 del 2014, accoglieva la domanda attorea e accertata l’autenticità della scrittura privata del 12.11.2003 e la sua natura di atto di disposizione ad effetti reali, per l’effetto dichiarava la A.A. comproprietaria dell’appartamento in questione, nella quota di 2/3 e regolava gli ulteriori rapporti patrimoniali fra le parti come da c.t.u., condannando il B.B. al pagamento della somma di Euro 1.672,24, pari alla differenza fra il valore dell’immobile e le spese di manutenzione dello stesso, oltre alle spese di lite;
– in virtù di gravame interposto dal B.B., la Corte di Appello di Lecce, nella resistenza della A.A., con sentenza n. 222 del 2018, in accoglimento dell’appello e in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava il B.B. proprietario esclusivo dell’appartamento e lo condannava al pagamento di Euro 17.246,22, oltre rivalutazione monetaria e interessi, quale credito maturato nei confronti dell’originaria attrice; in accoglimento della riconvenzionale riproposta in appello dal B.B., condannava la A.A. al pagamento della somma di Euro 300,00 mensili, a far data dal gennaio 2006 fino al rilascio, a titolo di indennità di occupazione.
A sostegno della decisione la Corte distrettuale, diversamente dal primo giudice, ravvisava nella scrittura privata del 12.11.2003 non già un atto dispositivo della proprietà del bene con effetti reali ma una regolazione delle posizioni patrimoniali di dare e di avere fra le parti per cui sussisteva un diritto di credito dell’appellata per le somme corrisposte per l’acquisto e la manutenzione del bene.
Quanto alle voci di credito liquidava Euro 6.197,48 quale acconto versato al preliminare, Euro 3.098,00 per spese di ristrutturazione riconosciute nella scrittura ed Euro 7.950,00 per ratei di mutuo, respinte le altre voci richieste per difetto di prova.
Inoltre, riconosceva all’appellante l’indennizzo per occupazione abusiva dell’abitazione per essere stato nella disponibilità della A.A. dopo la cessazione della convivenza;
– per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Lecce ha proposto ricorso, fondato su sei motivi, la A.A., cui ha resistito il B.B. con controricorso;
– in prossimità dell’ordinanza camerale parte ricorrente ha curato il deposito della memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..
Atteso che:
– va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso dedotta nel controricorso del B.B., secondo cui il ricorso introdotto dalla A.A. conterrebbe la “fotoriproduzione degli atti del processo”, riportando ogni singolo accadimento processuale senza alcuna necessità, con ciò dimostrando l’esclusione della sussistenza della sommarietà di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3).
La preliminare eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata nel controricorso, è infondata. In proposito occorre ribadire che, a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere “l’esposizione sommaria dei fatti di causa”, e che il principio di autosufficienza del ricorso non è violato dalla circostanza che esso sia composto mediante inserimento di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora (come nel caso in esame) la riproduzione integrale degli atti di causa sia comunque accompagnata da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione delle questione dedotte, rinvenibile nello svolgimento dei singoli motivi di ricorso (in tal senso v., Cass., Sez. Un., n. 4324 del 2014; Cass. n. 19562 del 2018);
– venendo al merito, con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1322, 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c. sull’interpretazione dei contratti e relativamente al contenuto ed interpretazione della scrittura privata del 12.11.2003, per avere la Corte di appello, erroneamente interpretato la scrittura de qua.
Ad avviso della ricorrente la Corte avrebbe dovuto non limitarsi al senso letterale delle parole ma indagare quale fosse la comune intenzione delle parti, valutando a tal fine il loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto.
A tal fine la ricorrente sottolinea come il B.B., nel processo penale che lo vedeva imputato per truffa, avesse invocato la scrittura privata, proprio per sostenere che con la stessa aveva riconosciuto alla A.A. il diritto alla metà dell’immobile ed ottenuto, proprio in forza di detta attribuzione, l’assoluzione dal reato.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, emerso dalle dichiarazioni del promittente venditore dell’immobile, C.C., da cui secondo la ricorrente, emerge che il C.C. ebbe a specificare che sia l’acconto di L. 1.000.000, sia il successivo acconto di L. 12.000.000 erano stati a lui versati dalla sola A.A., il che costituiva prova che detti pagamenti, compreso il primo acconto sono stati eseguiti esclusivamente dalla A.A..
La ricorrente sostiene che se la Corte avesse esaminato tale circostanza, accertata nel giudizio di primo grado e valorizzato dal Tribunale, la decisione sul punto sarebbe stata opposta a quella adottata.
Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2697, 2702 e 2727 c.c., e degli artt. 112, 115, 116 e 167 c.p.c., relativamente alle spese di ristrutturazione sostenute da parte ricorrente, allegate al fascicolo di primo grado unitamente alla relazione del c.t.u., dove si indicano le spese sopportate dalla stessa e nello specifico le singola fatture richiamate, del tutto ignorate dalla Corte, la quale ha affermato che in presenza di contestazioni reciproche, le fatture non potessero costituire prova certa dell’avvenuto pagamento da parte del soggetto intestatario, trattandosi comunque di spese intervenute nel periodo di convivenza, per cui si deve presumere la comune contribuzione.
A dire della ricorrente, dalla lettura della comparsa del B.B. non è dato cogliere alcuna contestazione circa le fatture in questione, tantomeno un’affermazione o rivendicazione di controparte circa la presunta comune contribuzione, sicché l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata appare priva di riscontro e viola le norme denunciate. A tale proposito la ricorrente lamenta che anche nella denegata ipotesi in cui la Corte avesse applicato correttamente i principi in materia di presunzione e ritenuto quindi correttamente la comune contribuzione, la sentenza sarebbe comunque viziata sotto il profili della violazione degli artt. 2697 e 2702 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., perché la comune contribuzione avrebbe comunque comportato il diritto della ricorrente a vedersi riconoscere il 50% delle spese in esame e non già il diniego “tout cour” della domanda di rimborso delle somme in questioni.
Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4 circa la motivazione per insanabile contraddittorietà ed illogicità manifesta proprio perché l’affermazione della comune contribuzione dei due ex conviventi, avrebbe dovuto ragionevolmente indurre la Corte a riconoscere il diritto della A.A. al rimborso del 50%.
Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., in quanto in accoglimento della domanda riconvenzionale del B.B., la Corte ha condannato l’odierna ricorrente al pagamento della somma di Euro 300,00 mensili, a far data da gennaio 2006 fino al rilascio, a titolo di indennità di occupazione, in tal modo, violando l’art. 345 c.p.c., trattandosi di domanda nuova, introdotta dal B.B. con l’atto di appello.
Per la ricorrente, la Corte avrebbe quindi dovuto rilevare d’ufficio la novità della domanda de qua, ed astenersi dall’esaminarla nel merito.
Con il sesto ed ultimo motivo la ricorrente, in subordine e nella denegata ipotesi del non accoglimento del quinto motivo di ricorso, lamenta la violazione e l’omessa applicazione degli artt. 1102, 1322 e 1372 c.c., sollevando con detto motivo la A.A. la questione di ritenere di essere stata ingiustamente condannata al pagamento di una indennità mensile di Euro 300,00, a partire da gennaio 2006 fino al materiale rilascio dell’immobile, a titolo di occupazione dell’immobile, e ciò alla luce dell’art. 1102 c.c. e del contenuto della scrittura privata del 12.11.2003 che contiene l’attribuzione patrimoniale della A.A. del diritto alla metà dell’immobile, sicché l’uso dello stesso, anche dopo la cessazione della convivenza, era pienamente legittimo e non poteva costituire diritto ad una indennità di occupazione in favore del B.B., che aveva ritenuto volontariamente di porre fine al legame sentimentale ed alla convivenza. La A.A., avvalendosi di quanto pattuito nella scrittura privata, aveva chiesto di acquistare dal B.B. la quota dell’altra metà dell’immobile a cui lo stesso aveva opposto un rifiuto.
Le censure vanno esaminate unitariamente in quanto tutte attengono, seppure sotto diversi profili, alla questione della prova del patto fiduciario. Esse sono fondate.
Sulla tematica è intervenuta la pronuncia delle Sezioni Unite del 06.03.2020 n.6459: la questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite concerneva proprio la forma del patto fiduciario avente ad oggetto beni immobili e l’interrogativo sollevato dall’ordinanza interlocutoria atteneva alla problematica se potesse ritenersi valida fonte dell’obbligazione di ritrasferire soltanto un atto bilaterale e scritto, coevo all’acquisto del fiduciario, o se fosse sufficiente un atto unilaterale, ricognitivo, posteriore e scritto del fiduciario, a monte del quale vi fosse un impegno espresso oralmente dalle parti.
Il Supremo consesso, dopo aver passato in rassegna le posizioni giurisprudenziali e dottrinarie, hanno inquadrato il patto fiduciario nella figura del mandato senza rappresentanza, aderendo all’indirizzo, inaugurato da Cass. 15 maggio 2014, n. 10633, secondo cui l’accordo fiduciario, anche quando ha ad oggetto beni immobili, non necessita della forma scritta a fini della validità del patto, ben potendo la prescrizione di forma venire soddisfatta dalla dichiarazione unilaterale redatta per iscritto, con cui il fiduciario si impegni a trasferire determinati beni al fiduciante, in attuazione esplicita del medesimo pactum fiduciae.
Analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza, dunque, anche per la validità dal pactum fiduciae prevedente l’obbligo di ritrasferire al fiduciante il bene immobile intestato al fiduciario per averlo questi acquistato da un terzo, non è richiesta la forma scritta ad substantiam, trattandosi di atto meramente interno tra fiduciante e fiduciario che dà luogo ad un assetto di interessi che si esplica esclusivamente sul piano obbligatorio, per cui la dichiarazione unilaterale scritta dal fiduciario, ricognitiva dell’intestazione fiduciaria dell’immobile – e promissiva del suo ritrasferimento al fiduciante – non costituisce pertanto autonoma fonte di obbligazione, ma, rappresentando una promessa di pagamento, ha soltanto effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, realizzando, ai sensi, dell’art. 1888 c.c., un’astrazione processuale della causa, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della “contra se pronuntiatio”, dell’onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria.
Nel caso di specie, la scrittura privata del 12.11.2003, con cui il B.B. riconosceva l’acquisto avvenuto in comunione con la A.A. dell’immobile in contesa per quote uguali (atto nel quale, nell’ultimo capoverso, testualmente si legge: “Fermo resta la possibilità per entrambi di ritenere per sé la quota pari a metà dell’immobile, ciascuna parte di pari valore o di acquistare la quota spettante all’altra parte”) ha effetto confermativo del patto fiduciario ed esonera il fiduciante dall’onere di provare il rapporto fondamentale, che viene presunto iuris tantum, né risulta che il controricorrente, che intendeva contrastare il contenuto di tale dichiarazione, abbia fornito l’eventuale prova contraria dell’esistenza, validità, efficacia, esigibilità o non avvenuta estinzione del pactum.
Conclusivamente, il ricorso va accolto e cassata la sentenza impugnata con rinvio alla stessa Corte di appello di Lecce, in diversa composizione, che provvederà al riesame della vicenda alla luce dei principi sopra illustrati.
In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e rinvia alla medesima Corte di appello di Lecce, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 5 dicembre 2022.
Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2023